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Bill Evans, “Re: Person I knew” (Live, Parigi 6.2.1972) 

C’è un affascinante tranello in questa musica anticipato dall’enigma del titolo che è l’anagramma del nome di un amico di Bill Evans, Orrin Keepnews.  Il titolo occulta il nome di una persona e il nome del titolo “diventa”, “torna ad essere” ” person”, una persona… “che conosceva”,  che sapeva… Già nel titolo esiste ed è custodita la mappa del brano: parte da un contesto/struttura, Orrin Keepnews,  per poi decontestualizzare/destrutturare, l’anagramma,  e infine ricontestualizzare/ristrutturare, titolo.

Una strutturazione semantica e musicale a più piani di lettura, con più chiavi d’accesso e più sfumature emozionali “criptate” dentro ad una complessità profonda e una “difficoltà” quasi estrema.

Struttura certamente fluttuante, ma anche circolare, o meglio, fluttua nel senso che ” porta in giro” chi ascolta facendogli  perdere i riferimenti e facendolo in qualche modo “sentire perso” – come probabilmente si  sentiva Evans –  lo decontestualizza, ma tenendolo saldamente nello stesso luogo emotivo.  Luogo vago e indefinito, disperato e sentimentale, rarefatto e quasi lunare , privo di orpelli,  esibizionismi, presunzione e colmo invece di profonda nobiltà e ineguagliabile  grazia. Animo rannicchiato,  lucido e fragile, soffice e permeabile, egli  affonda le belle e lunghe dita tra gli 88 tasti come se affondasse le mani dentro la parte più intima, privata, appenna sussurrata di sè e, contemporaneamente, si immerge nel mare di sofferenza che la vita, anche lei, come lui, “suonando per accordi contigui”, non gli ha mai risparmiato.

Il primo desiderio che ho avuto nell’ascoltare questo brano è stato corrergli incontro e abbracciarlo in silenzio…vedere ciò che vedeva lui, il suo mondo, le persone di cui “parla”, i suoi pensieri, le perdita, le mancanze. Impossibile,  naturalmente.  Ho provato  delusione, forse la stessa che provava lui… magari davanti a un padre dal carattere “pericoloso”,  dipendente da alcol e gioco d’azzardo, padre da cui fuggire (in un’altra città dove la madre ha mitigò tale “‘assenza” col dono della musica) un animo gretto, probabilmente, che non poteva avvicinarsi alle vellutate “note” interiori dei figli lasciandoli così ” taciti, soli,  sanza compagnia” mentre “s’andavan” ad affrontar la vita “l’un dinanzi l’altro come frati minor vanno per via” (Inf. xxiii).  Evans non narra, è la narrazione:  il suo stato d’animo coincide e sempre si attiene al proprio personale racconto. “He keeps himself to himself” …, se ne sta per conto suo…e “keep” è contenuto nel nome occultato (Keepnews) in ciò che è nascosto, il non-detto. Nel ’63 registra  “Conversations with myself”, album da solista, in cui usa la tecnica dell”overdubbing (inserimento di suoni su sonorità precedentemente registrate) un mezzo che, in modo evidente, segnala e “occulta” “un’assenza” e insieme la “mitiga” con la sostituzione compensatoria: una parte del sè anticamente tracciata può così dialogare con lui, superando lo spazio e il tempo,  nel “qui ed ora”.  Evans non “ti” racconta ma ti  “custodisce”, ti tiene in serbo, ti trattiene in una relazione musicale che si fa sentimentale dove non ci sono “un io” e “un tu”, ma “due solitudini che si proteggono… si salutano” (Rilke) si rispettano, due intimità che si sfiorano, si riconoscono,  si toccano.

Non mi restava che affidarmi al mio dolore per provare a  seguirlo, ricordando,  lasciandomi andare alle sue note ultraterrene capaci di far parlare l’oblio, capaci di far suonare anche il silenzio.

Elementi questi che fanno parte della tessitura di  questo brano, ma, per la verità, di tutta la sua meravigliosa opera. E ri-evocare era quello che ho fatto anch’io, lasciavo che i ricordi galleggiassero sul tocco chiaro e poetico delle sue mani capaci di produrre note e modalità magiche  di una bellezza da togliere il fiato…

Però è anche vero che si ricorda quel che non c’è… infatti l’assenza è un altro elemento, qui, potentemente  “presente”.

Il pezzo comincia subito con un richiamo della mano destra che “evoca”… prima con note appena accennate, poi sempre più intensamente e scavando  in profondità modali che non si aggrappano a certezze,  mentre la mano sinistra risponde con accordi di consenso, quasi consolatori, a quello struggimento appena iniziato che sa già dove andrà a “perdersi”.

Un dialogo tra sè e sè incentrato sull’assenza di qualcuno, di qualcosa, sull’impossibilità di ritrovarlo, sulla delusione, sulla  sofferenza, sul doversi perdere per potersi ritrovare.

Il dialogo si estende al contrabbasso (mentre la batteria qui mi sembra abbia una grande funzione, ma un pò come quella del coro nella tragedia greca… l’amplificazione, la magia, la stabilità, la ripetizione quasi ipnotica)… e ancora si intravvede una chiave di lettura dell’assenza:  il “suo” contrabbasso, quello “dell’alchimia perfetta”,  Scott LaFaro,  non c’è più, è morto in un incidente nel 61 (e, successivamente, nel ’71, la prima moglie di Evans, Ellaine, si suicidò gettandosi sotto un treno della metropolitana di NY).

Ebbene “Re: persona i knew”  è un capolavoro architettonico della nostalgia:  quell’emozione che sa catapultarti a migliaia di chilometri in un attimo o spostarti addirittura nel tempo… La nostalgia, il desiderio struggente, è la mancanza di qualcosa che si desidera, cui si vuol tornare, a cui col ricordo si torna e nel ricordo “si tiene”. Per questo viene voglia di ricordare… un”dove”, un “quando”, un “come”, un “chi” …cui “si tiene”, che si ama e a cui si vorrebbe ri-tornare. O, per dirlo in un altro modo,  “quando ti viene a trovare una nostalgia, non è mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi, da lontano e ti tengono un poco di compagnia” (Erri De Luca, Montedidio)

E ancora. La madeleine… l’odore, il sapore scatenano in Proust la nostalgia… “quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo  la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”.(La Recherche)

Nostalgia è “il tornare a casa” ed è anche il tornare a sè (noòs, mente, pensiero e nòstos, il ritorno hanno la stessa radice…e…beh… algia…il dolore). Ulisse torna a casa perchè ha il senno, la mente, la luce,  mentre i compagni di viaggio (stolti, nepioì, privi di mente) non tornano indietro per la loro perdita di noòs … senza considerare che Nestore, anche il suo nome ha radice nel noòs,  è colui che riporta indietro, “che porta a casa”, che riporta a sè,  è la consapevolezza. (rif. R.Rossi, Oltre lo strato roccioso)

Evans ha il noòs, ha l’impressionismo nelle mani sapienti e ha un animo raffinatissimo, tenero e mite, un cristallo purissimo,  un distillato di dolcezza infinita, a volte “rassegnata”, a volte amara…e non è un narcisista : torna a sè, ricompone musicalmente anche se, nella vita, con la droga, analgesico per il dolore che non è per nulla “indolore” (“Suicide is painless” dedicata a Ellaine), ma un lento suicidio, “occulta” e non risolve la depressione che lo accompagna. Pianoforte e contrabbasso si avvicinano, si abbracciano, si ri-trovano, si intrecciano, piangono e parlano, si fondono e si distinguono,  urlano e sussurrano … alla fine il brano smette di ondeggiare e torna… elegante, lieve,  raffinato… atterra delicatamente dopo essersi ri-trovato… Re: person i knew. Compie il miracolo Evans: ha usato bene il suo dolore e ha creato un capolavoro che gli ha ridato se stesso. Lui è un capolavoro.

Questo brano è un’avventura dove sono i ricordi che “ti scelgono”… Mi viene in mente un detto Masai “Quando la memoria va a raccogliere i rami secchi, torna col fascio di legna che preferisce”… Del resto non si sa neppure  se sia Bill Evans ad aver scelto il jazz o il contrario… A soli dodici anni una terza minore ed una terza maggiore, usate in successione, in un’unica scala in si bemolle, “lo” trovano e dilagano in lui rompendo gli argini della musica  accademica,  inondando la sua finissima e maestosa sensibilità. Il pianoforte diventa un potente mezzo espressivo e la musica (ed ecco “news”, l’altra metà del non-detto) un “altro” linguaggio, quello delle emozioni dirette, delle antenne sonore istintive, delle sensazioni improvvise, delle percezioni immediate, quello del suono “non-scritto” che parla la lingua del “non-detto”. Evans trasforma il modale in uno spartito aperto, armonico, arioso e imprevedibile privo di virtuosismi stucchevoli che ti avvolge con tepore,  ti accarezza con timidezza e non ti abbandona: teneramente, egli, ” sa” “tenere” (to keep)

Questo brano è un viaggio in cui Bill Evans porta in giro un sè “spaesato”, “smarrito”, dis-orientato, senza luogo,  senza tempo e, forse,  senza neppure sapere di essere egli stesso la propria destinazione. Per questo ogni versione è molto diversa,  il racconto dei ricordi è diverso perchè  lui è sempre diverso (anche ognuno di noi non è sempre lo stesso) perchè lui, con la sua tecnica impeccabile,  svincola fraseggi da tradizionali armonie, cui non rinuncia, liberandoli in qualche modo dai canoni standard, regalando loro libertà e ogni volta vita nuova…. e  perchè il jazz è ogni volta diverso :  è il “qui ed ora” della musica.

Per chi ascolta è come salire con Evans sulla navicella della nostalgia: un dolore lo trovi, un’assenza anche, una passione pure… o sono loro a trovare te e “ti lasci perdere”, anche tu smarrita  e disorientata, … ma lui “tiene” e, come Nestore, riporta a sè, alla consapevolezza, riporta a “casa”. C’è anche un suo brano sulla differenza enorme tra house e home… Non c’è  alcun dubbio: la casa di Bill Evans è solo “home”.  Ed è proprio Evans  (e chi lo ascolta) che rappresenta un “occultato”  aspetto tonale, una garanzia, la casa vera, intima, personale, la sua “essenza”… come dice Melville (Moby Dick),  “non è segnata su nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai” .

E se, come dice un mio amico, la vita è fatta di incontri è anche vero che la vita è un racconto… e l’unico vero racconto è quello interiore. Bill Evans lo sa bene.

Il suicidio, nel ’79,  anche del fratello Harry (stesso nome del padre) punto di riferimento irrinunciabile fin dall’infanzia, lo consegnò definitivamente “al canto delle sirene” della dipendenza che scavarono brutalmente  nella sua disperazione, lo privarono di danaro, rapporti e  della sua inarrivabile e salvifica creatività ampliando il cratere della depressione con un altro cocente lutto  e risucchiandolo nel vortice dell’assenza fino a fare  anche di lui… assenza. Dedica al fratello “We will meet again” . Così sarà… solamente l’anno dopo.

Ogni volta che si sedeva al pianoforte  piegato dal dolore,  era come “s’inchinasse” commosso, grato, umile davanti a quello strumento che gli consentiva di  “liberare il dolore”,  di distendere l’animo, di trasfigurarlo e trasformarlo in “sublime”.

A noi non resta che inchinarci davanti a un gigante dall’io in sordina, davanti a questa  sensibilità finissima tormentata da lutti e dipendenze, malinconie e assenze, da sentimenti profondissimi, autentici, fedeli, leali,  indefinibili e misteriosi,  materia prima dell’ispirazione e della creazione di sonorità capaci di legarsi in modo perfetto agli altri strumenti, di interpretare magistralmente gli arrangiamenti con una  gamma di colori tonali unica e irripetibile… che le parole, almeno le mie, non sanno esprimere.

“Tutto si può riprodurre tranne Bill Evans”  (Chick Corea)

tiziana Campodoni

 

pubblicato su http://blue-moon.comunita.unita.it